Pubblicato il Focus n. 4 “La tassazione del reddito di impresa dopo il Decreto Crescita”

 

Il Focus si propone l’obiettivo di analizzare i principali effetti di natura finanziaria ed economica della revisione della tassazione del reddito di impresa come risultante dalla lettura congiunta della legge di bilancio e del DL 30 aprile 2019, n. 34 (il cosiddetto Decreto Crescita). Quest’ultimo, infatti, nell’introdurre misure urgenti per la crescita economica, per il rilancio degli investimenti e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi, ha anche previsto nuovi interventi sul sistema di tassazione d’impresa rispetto a quelli già stabiliti, prorogati e aboliti con la legge di bilancio 2019.

 

Se da un lato vengono infatti potenziate alcune misure già presenti nella legge di bilancio – la maggiorazione delle quote di ammortamento e la deducibilità dal reddito di impresa dell’Imu pagata sugli immobili strumentali – dall’altro si rivede nuovamente la struttura della tassazione dei profitti non distribuiti delle imprese già modificata con la stessa legge di bilancio. Il Decreto Crescita abroga l’agevolazione sugli utili reinvestiti stabilita con la legge di bilancio e introduce una nuova aliquota agevolata rispetto a quella ordinaria per la quota di utili di esercizio accantonata a riserve: 1,5 punti percentuali di riduzione nel 2019, 2,5 punti nel 2020, 3 punti nel 2021 e 3,5 punti a partire dal 2022.

 

Se complessivamente dall’insieme delle misure sulla tassazione dei redditi delle attività produttive introdotte con la legge di bilancio e con il Decreto Crescita (escluse le misure straordinarie relative a banche e altri intermediari finanziari) sono attesi effetti finanziari complessivamente contenuti, significativi sono invece l’impatto sulla struttura del prelievo delle attività produttive, sulla distribuzione del carico tributario e sugli incentivi economici.

 

Per quanto riguarda la struttura del prelievo, il sistema risulta alla fine più frammentato. La tassazione si differenzia oltre che sulla base della natura giuridica, anche sulla base delle caratteristiche dimensionali delle imprese, generando di fatto tre regimi: 1) il regime progressivo dell’Irpef (a cui sono soggette le imprese individuali in contabilità ordinaria e le società di persone); 2) quello proporzionale dell’Ires (a cui sono sottoposte le società di capitali); 3) un ulteriore regime proporzionale fortemente agevolativo per i soggetti persone fisiche ammessi al regime forfettario e all’imposta sostitutiva (imprese individuali e lavoratori autonomi). Quest’ultimo è rivolto alla quasi totalità dei contribuenti lavoratori autonomi e imprenditori individuali e pertanto non può più essere considerato un regime speciale e circoscritto come quello previgente dei minimi. Inoltre, per le prime due categorie di contribuenti (in regime ordinario) si prevede un trattamento differenziato a seconda che si tratti imprese non finanziarie (a esse si applica una aliquota ridotta sugli utili non distribuiti) o di banche e altri intermediari finanziari (è prevista un’addizionale all’Ires per sterilizzare la misura agevolativa sugli utili).

 

Sul versante della redistribuzione del carico tributario si può osservare che gli imprenditori individuali con ricavi superiori ai 100.000 euro, le società di persone e le imprese del settore finanziario sembrerebbero scontare la maggiore penalizzazione nel nuovo disegno di imposizione: i primi, a causa dell’abolizione del regime opzionale dell’IRI e della loro esclusione dal regime forfettario (solo in parte compensati dalla riduzione della aliquota di imposta sugli utili non distribuiti); le seconde, oltre che per l’impatto negativo rilevante delle misure straordinarie, per l’abolizione dell’ACE e per l’esclusione dal nuovo regime agevolato sugli utili non distribuiti.

 

Alla diversità degli strumenti agevolativi si associano differenti obiettivi: l’ACE puntava a rendere neutrale la tassazione rispetto alle scelte di finanziamento favorendo l’equilibrio finanziario delle imprese; l’agevolazione sugli utili reinvestiti prevista con la legge di bilancio mirava a incentivare gli investimenti e l’occupazione; il regime introdotto con il Decreto Crescita definisce più genericamente un sistema duale di tassazione che avvantaggia gli utili non distribuiti rispetto a quelli distribuiti disegnando un sistema di incentivi tributari sulla scelta delle fonti di finanziamento e sulla composizione e dimensione del capitale.

 

Per l’insieme delle imprese in regime ordinario viene abbandonato l’obiettivo di neutralità tributaria rispetto alla scelta delle fonti di finanziamento raggiunto con l’ACE e viene ristabilita la convenienza tributaria del debito (anche se depotenziata dalle limitazioni alla deducibilità introdotte negli ultimi anni) rispetto al capitale di rischio e, nell’ambito di quest’ultimo, viene introdotta una discriminazione a favore dell’autofinanziamento (utili non distribuiti) rispetto al nuovo capitale, con effetti potenziali sulle politiche dei dividendi/distribuzione dei profitti delle imprese. L’esclusione dalla agevolazione dei nuovi apporti di capitale riduce il perimetro degli incentivi e nel tempo, in assenza di un’adeguata redditività, può influire sulla composizione tra capitale di rischio e di debito. Inoltre, gli incentivi alla capitalizzazione sono resi più complessi a causa del passaggio da una esenzione della remunerazione calcolata sullo stock di capitale (nel regime ACE) all’applicazione di un’aliquota ridotta sul flusso annuale degli utili trattenuti nell’impresa (con la nuova agevolazione).

 

Considerando gli incentivi agli investimenti e alla crescita, la nuova agevolazione, rispetto alla riduzione di imposta prevista con la legge di bilancio, in assenza di un vincolo di destinazione degli utili, rende meno esplicito il ruolo di incentivo ai nuovi investimenti e all’occupazione, che tuttavia rimane attivo attraverso il canale della maggiore liquidità di impresa determinata dal risparmio di imposta. Gli incentivi agli investimenti sono tuttavia potenziati con la proroga della maggiorazione delle quote di ammortamento.

 

In sintesi, con la legge di bilancio e il Decreto Crescita l’ACE e l’IRI, che perseguivano chiari obiettivi di neutralità della tassazione rispetto alle fonti di finanziamento e alla natura giuridica dell’impresa, vengono sostituiti, sostanzialmente a parità di gettito, da un insieme di schemi le cui finalità complessive sono difficili da individuare.

 

Utilizzando il modello MEDITA dell’UPB sulle società di capitale non finanziarie, integrato con un modulo di simulazione della tassazione per quelle finanziarie, è stata condotta una analisi degli effetti redistributivi derivanti dalle principali misure adottate con la manovra: eliminazione dell’ACE, introduzione della nuova aliquota agevolata, maggiore deducibilità Imu e superammortamento. Per l’intero comparto delle società di capitali non finanziarie l’effetto congiunto delle misure considerate determina una riduzione del gettito e dell’aliquota effettiva, mentre per le società finanziarie e le banche (circa l’1,5 per cento del totale delle società di capitali e il 15 per cento del gettito complessivo dell’Ires) l’effetto è di segno opposto e particolarmente significativo. Le imprese non finanziarie più piccole godono del beneficio netto maggiore grazie alla maggior rilevanza della deduzione dell’Imu, il cui impatto è decrescente all’aumentare della dimensione di impresa.

 

Guardando alla localizzazione delle imprese, il risparmio di imposta si distribuisce in modo più omogeneo di quello associato all’abolita ACE, che favoriva in media le imprese del Nord e del Centro rispetto a quelle del Mezzogiorno. Complessivamente, la manovra ha quindi un impatto più favorevole nel Mezzogiorno.

 

Infine focalizzando l’attenzione esclusivamente sul regime agevolativo, si può osservare che, rispetto a quello ACE, quasi a parità di gettito, la nuova agevolazione sugli utili non distribuiti determina risparmi di imposta concentrati sulle imprese non finanziarie. All’interno di questo comparto, le imprese che hanno maggiormente accumulato capitale negli ultimi 9 anni (gli anni di vigenza dell’ACE) sconteranno un risparmio di imposta inferiore a quello determinato dall’ACE; al contrario, le altre imprese godranno di un risparmio di imposta equivalente o superiore. L’esclusione dalla nuova agevolazione dei nuovi apporti di capitale sembra inoltre svantaggiare prevalentemente le imprese più piccole che rispetto alla media alimentano il proprio capitale più frequentemente con questa fonte piuttosto che con l’autofinanziamento.