Audizione sull’assetto della finanza territoriale e sulle linee di sviluppo del federalismo fiscale

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La Presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB), Lilia Cavallari, è intervenuta oggi in audizione presso la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale. Dopo aver discusso l’entità e gli effetti dei provvedimenti straordinari in favore degli Enti territoriali per fronteggiare la crisi connessa alla pandemia (par. 2), la Presidente si è soffermata sulle seguenti tematiche: sulle novità in materia di federalismo del comparto delle Province e delle Città metropolitane (par. 3.1); sulla recente accelerazione nella determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) (par. 3.2); sui possibili effetti sull’assetto attuale dei tributi locali della prospettata sostituzione delle addizionali comunali all’Irpef con sovraimposte (par. 4); sul grado di coinvolgimento degli Enti decentrati nell’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e sulle attuali criticità che potrebbero ostacolare il ruolo di quest’ultimo nell’attenuare i divari territoriali e infrastrutturali che caratterizzano il nostro Paese (par. 5); sulla recente evoluzione della perequazione infrastrutturale (par. 6).

 

Nell’ultimo biennio sono stati attuati una serie di provvedimenti straordinari per consentire agli Enti territoriali di fronteggiare le conseguenze economiche e sociali della pandemia e per compensare la riduzione del gettito dei tributi propri, che hanno temporaneamente alterato il sistema ordinario di relazioni finanziarie intergovernative. Nel complesso, alle Amministrazioni locali sono state trasferite risorse pari a 11,9 miliardi nel 2020 e 2,8 nel 2021, di cui 8,5 ai Comuni, 1,1 alle Province e alle Città metropolitane e 5,1 alle Regioni.

 

Per i Comuni e le Province, un ruolo centrale ha avuto la definizione dei criteri e delle modalità di riparto delle risorse da destinare alla solidarietà alimentare e di quelle stanziate nel Fondo per le funzioni fondamentali (cosiddetto Fondone). I criteri di volta in volta individuati hanno risposto alla duplice esigenza di ristorare le perdite di gettito e di garantire il finanziamento delle azioni necessarie a fronteggiare le conseguenze economiche e sociali della crisi sanitaria. I fondi di solidarietà alimentare sono stati distribuiti ai Comuni in proporzione alla popolazione residente e in base alla distanza fra il reddito pro capite a livello comunale e il valore medio nazionale. I criteri di riparto del Fondo per le funzioni fondamentali degli Enti locali hanno invece seguito prevalentemente il criterio della capacità fiscale, sebbene in alcuni casi abbiano trovato spazio criteri relativi agli aumentati fabbisogni legati alla crisi economica e sociale.

 

Per quanto riguarda le Regioni e le Province autonome, le risorse del Fondo per l’esercizio delle funzioni di questi Enti, pari a 4,3 miliardi nel 2020, essendo state finalizzate sostanzialmente al ristoro delle perdite di gettito, sono state distribuite sulla base di questo criterio. Il DL 137/2020 ha invece messo a disposizione delle Regioni a statuto ordinario (RSO) 250 milioni per il 2020 e 110 per il 2021 per ristorare le categorie soggette a restrizioni durante le diverse fasi della crisi sanitaria.

 

L’assegnazione di queste ingenti risorse è stata fatta con provvedimenti adottati in condizioni di urgenza e nell’ambito di un quadro normativo incerto e incompleto relativamente alle modalità di concorso dello Stato al finanziamento delle funzioni fondamentali degli Enti territoriali nelle fasi avverse del ciclo. L’articolo 11 della L. 243/2012, che disciplina le modalità del concorso dello Stato al finanziamento dei livelli essenziali e delle funzioni fondamentali nelle fasi avverse del ciclo o al verificarsi di eventi eccezionali, e che è stato oggetto di una revisione nel 2016 poi dichiarata incostituzionale, appare infatti ancora oggi inattuato.

 

L’incompletezza del quadro normativo potrebbe aver accentuato alcune problematicità delle misure emergenziali del 2020 e 2021. In primo luogo, l’individuazione dell’oggetto esatto dei ristori: le misure sono state destinate in parte a compensare la riduzione delle entrate delle Amministrazioni locali e in parte a fronteggiare i loro aumentati fabbisogni. Tuttavia, non sempre le risorse per l’una e per l’altra finalità sono state chiaramente distinte, soprattutto per quanto riguarda le risorse attribuite con il “Fondone”. Un secondo aspetto da considerare è l’esigenza di delimitare l’ambito delle spese che possono essere effettivamente finanziate dalle Amministrazioni locali con i ristori emergenziali; in particolare, il problema potrebbe essere quello di individuare in maniera univoca le spese legate alle funzioni fondamentali. Infine, potrebbe essere difficile capire quali aumentati fabbisogni degli Enti siano strettamente riconducibili agli effetti della emergenza e non, più genericamente, alla situazione economica e sociale di partenza dei diversi territori. Non dovrebbero, in effetti, essere i ristori per le situazioni emergenziali a svolgere una funzione di perequazione fra gli Enti.

 

L’esito distributivo dei ristori emergenziali va valutato anche alla luce di queste considerazioni. A tale proposito, se si guarda al riparto pro capite per Regione della solidarietà alimentare – basato anche su un criterio di reddito – si osservano valori più elevati per le Regioni del Sud. Con riferimento al “Fondone”, invece, gli importi medi complessivi assegnati sia nel 2020 che nel 2021 sono stati generalmente più elevati per gli Enti delle Regioni centro-settentrionali, almeno quando hanno prevalso criteri di riparto basati sulla perdita di gettito; la situazione si è invece invertita quando sono state preferite modalità di assegnazione legate agli aumentati fabbisogni.

 

Nel complesso, la possibilità di utilizzo di questi strumenti emergenziali trarrebbe beneficio da un completamento del quadro normativo. Nel caso in cui si abbandonasse definitivamente il tentativo dell’articolo 11 della L. 243/2012 di individuare degli automatismi volti a trasferire ai livelli locali risorse corrispondenti alla propria quota di competenza della componente ciclica del deficit e si optasse per accordi discrezionali da definire di volta in volta fra governo centrale ed Enti locali, assumerebbero un’importanza centrale le attività di certificazione e monitoraggio delle risorse trasferite. Esse permetterebbero infatti di garantire la corrispondenza ex post fra quanto versato dal governo centrale e le effettive necessità delle Amministrazioni locali anche in assenza di regole automatiche.

 

Nello stesso periodo sono stati disposti provvedimenti di carattere permanente che hanno già agevolato e, in prospettiva, faciliteranno ulteriormente l’attuazione del federalismo fiscale. Ci si riferisce, in particolare, alla relativa accelerazione impressa alla determinazione dei LEP, la cui assenza ha costituito uno dei principali ostacoli alla creazione dei sistemi perequativi su cui si fonda il federalismo. Negli ultimi anni sono stati fissati alcuni livelli essenziali e obiettivi di servizio, sono state reperite risorse strutturali volte a coprirne gli oneri e sono state previste attività di coordinamento e programmazione.

 

La legge di bilancio per il 2022 ha provato a fare ordine in materia richiamando le norme che già avevano fissato LEP in precedenza e introducendo ulteriori disposizioni, l’attuazione delle quali richiederà tuttavia una serie di passaggi successivi. Il quadro complessivo appare tuttavia ancora frammentato ed eterogeneo. Il suo completamento dovrà essere accompagnato nei prossimi anni da ulteriori interventi che consentano di meglio coordinare le disposizioni volte a determinare i LEP e razionalizzare le varie fonti di finanziamento. Se infatti l’ampliamento del concetto di livello essenziale è stato, da un lato, funzionale a avviare un processo di progressiva costruzione di un sistema di servizi sociali omogeneo sul territorio integrato con quelli sanitari e con le politiche del lavoro e a condividere tale processo tra i livelli di governo e tra tutti gli attori in gioco, dall’altro lato, comporta qualche difficoltà a precisarne il contenuto, che non sempre è traducibile in un servizio/prestazione da garantire al cittadino. La molteplicità delle fonti di finanziamento dei LEP in ambito sociale rende difficile valutarne l’adeguatezza complessiva. Nonostante l’incremento del Fondo di solidarietà comunale l’estensione dei livelli essenziali potrebbe richiedere nuove fonti di finanziamento, in particolare per la non autosufficienza, il cui fondo dedicato viene solo limitatamente integrato e la cui riforma è prevista tra l’altro dal PNRR. Quanto agli asili nido, resta dubbia la scelta di includere i servizi privati tra quelli che contribuiscono a comporre il relativo LEP. In prospettiva, la piena attuazione del federalismo fiscale, secondo il disegno previsto dalla L. 42/2009, richiederebbe di riunire i finanziamenti dei LEP erogati dagli Enti territoriali in un unico fondo che assicurasse la perequazione in base ai fabbisogni standard, a loro volta fondati sui LEP. Per favorire la realizzazione di un tale percorso, oltre che per assicurare una sistematizzazione generale, sarebbe utile che le disposizioni volte a determinare i LEP fossero coordinate attraverso una legge quadro e riunite in un unico provvedimento.

 

I progressi, sebbene parziali, realizzati nell’ambito dei LEP, hanno accompagnato negli ultimi due anni l’evoluzione nel processo di attuazione del federalismo fiscale, almeno per quanto riguarda il comparto comunale e quello delle Province e delle Città metropolitane, mentre è ancora fermo il processo per il comparto delle Regioni.

 

Con riferimento ai Comuni, come già messo in evidenza nella precedente audizione, tra le altre cose, è stato rivisto l’impianto della perequazione, prevedendo che dal 2030 (al termine del periodo di transizione) il Fondo di solidarietà comunale sia basato integralmente sulla differenza tra fabbisogni standard e capacità fiscali standard, cancellando così il tetto del 50 per cento della capacità fiscale perequabile e abbandonando ogni riferimento al criterio storico. È stato avviato, partendo dalle funzioni degli asili nido e dei servizi sociali, un processo di revisione della metodologia di determinazione dei fabbisogni standard con l’obiettivo di sganciarli dal riferimento ai livelli quantitativi storicamente forniti dai singoli Enti e di collegarli invece a livelli di servizio standardizzati validi per tutto il Paese. Sono state riconosciute risorse aggiuntive per le funzioni degli asili nido, dei servizi sociali e del trasporto degli studenti con disabilità che permetteranno ai Comuni con livelli di servizi insufficienti di rafforzare la propria offerta senza tuttavia penalizzare gli Enti che già hanno raggiunto prestazioni elevate, in una chiara prospettiva di convergenza e, infine, è stato previsto un meccanismo di monitoraggio e verifica dell’effettivo incremento dei servizi.

 

Per quanto riguarda il comparto delle Province e delle Città metropolitane, dopo il rallentamento causato dalla crisi dei debiti sovrani e il tentativo non portato a termine di riforma costituzionale, le leggi di bilancio per il 2021 e per il 2022 hanno dato un nuovo impulso al riassetto della disciplina relativa a questi Enti con l’obiettivo di definire, a partire dal 2022, nuove modalità di finanziamento coerenti con il disegno del federalismo fiscale.

 

Si ricorda che in seguito alla crisi economica e finanziaria del 2010-11 il governo centrale ha fortemente coinvolto il comparto nel percorso di risanamento e consolidamento dei conti pubblici. Ciò ha comportato progressivi tagli alle risorse devolute nonché un inasprimento degli obiettivi di bilancio di questi Enti tale che, a partire dal 2014, il concorso delle Province alla finanza pubblica è stato ottenuto attraverso risparmi di spesa corrente da versare allo Stato. Inoltre, il fallito tentativo di riforma del Titolo V della Costituzione del 2016 ha lasciato aperte molte questioni relative sia alle funzioni sia al finanziamento del comparto.

 

Negli ultimi anni è pertanto emersa la necessità di riordinare l’assetto di questi Enti e renderlo coerente con le disposizioni della legge delega sul federalismo fiscale. Questo processo di revisione è iniziato con la legge di bilancio per il 2021, che ha istituito a decorrere dal 2022 due Fondi distinti – uno per comparto – nei quali far confluire tutti i contributi e i fondi di parte corrente attualmente attribuiti a tali Enti. La distribuzione delle risorse deve essere basata sui fabbisogni standard e sulle capacità fiscali degli Enti. L’impianto delineato da questa norma è stato poi integrato dalla legge di bilancio per il 2022, che ha: 1) precisato le modalità del riparto perequativo dei due fondi; 2) stanziato per le Province e le Città metropolitane ulteriori contributi per lo svolgimento delle funzioni fondamentali.

 

I due momenti centrali della riforma sono stati dunque la determinazione dei fabbisogni standard e delle capacità fiscali di Province e Città metropolitane e il loro utilizzo nella definizione delle modalità di riparto dei Fondi. Per Province e Città metropolitane delle RSO i fabbisogni standard, pari complessivamente a 2.771,3 milioni, sono stati stimati utilizzando il Regression Cost Base Approach. Il calcolo parte dalla spesa 2018 per ciascuna funzione, ma la normalizzazione delle variabili ha permesso di allontanarsi dal criterio della spesa storica. Il risultato del calcolo sono dei fabbisogni standard espressi in termini monetari che entrano direttamente nella distribuzione dei Fondi. La capacità fiscale degli Enti, stimata in 3.060,8 milioni, è stata ottenuta valutando ad aliquota standard, ossia al netto dello sforzo fiscale, il gettito delle loro entrate proprie.

 

Nei due Fondi istituiti dalla legge di bilancio 2021 confluiscono tutti i contributi e i fondi di parte corrente di interesse per questi Enti, pari a 1.333,8 milioni, e il loro concorso complessivo alla finanza pubblica, pari a 2.769 milioni. Per differenza fra questi due aggregati è stato ottenuto il concorso netto alla finanza pubblica, pari a 1435,2 milioni trasferiti allo Stato. Il meccanismo di riparto dei due Fondi è basato sulle stime di fabbisogni standard e capacità fiscali e si articola in due componenti. La prima ricalcola il concorso netto alla finanza pubblica del singolo Ente sulla base della differenza fra il proprio fabbisogno e la capacità fiscale. Questo meccanismo incide sul riparto del contributo alla finanza pubblica per l’8 per cento nel 2022 (il rimanente 92 per cento continua a essere assegnato in base al criterio storico); la percentuale è tuttavia destinata ad aumentare nel tempo. La seconda componente trasferisce agli Enti le risorse aggiuntive previste dalla legge di bilancio per il 2022 (80 milioni il primo anno, a crescere negli anni successivi), che riducono il concorso netto alla finanza pubblica per il comparto. L’assegnazione a ogni Ente avviene in proporzione dei fabbisogni. L’inserzione di nuove risorse durante il percorso di avanzamento della perequazione fa sì che nonostante il significativo riequilibrio nessun Ente vedrà ridurre le proprie risorse. In questo modo verranno ripristinati gradualmente dei margini di autonomia, oggi del tutto assenti, la cui adeguatezza andrà valutata anche tenendo conto delle future evoluzioni dei fabbisogni e delle basi imponibili dei tributi propri.

 

In prospettiva, il contributo alla finanza pubblica, andrebbe più correttamente realizzato riservando allo Stato una quota del gettito dei principali tributi (IPT e RCA). In questo modo il rischio di un’evoluzione negativa delle basi imponibili, che oggi è interamente a carico di Province e Città Metropolitane, sarebbe condiviso anche dallo Stato e i fondi perequativi, in analogia a quanto accade per i Comuni, agirebbero esclusivamente sulle capacità fiscali e sulle risorse aggiuntive verticali per garantire a tutti gli Enti il finanziamento delle funzioni fondamentali.

 

Gli assetti della finanza decentrata dovrebbero in prospettiva essere inoltre coinvolti dalla riforma del sistema fiscale nazionale. Il disegno di legge delega in discussione al Parlamento prevede, tra le altre cose, la sostituzione delle addizionali comunali e regionali all’Irpef con sovraimposte. Per i Comuni, a differenza di quanto previsto per le Regioni, la versione del DDL delega in discussione stabilisce che il limite di manovrabilità dell’aliquota sia fissato in modo da garantire al complesso del comparto un gettito corrispondente a quello attualmente derivante dall’applicazione dell’aliquota media dell’addizionale all’Irpef, azzerando la leva fiscale residua a disposizione dei Comuni e determinando l’impossibilità per un numero rilevante di Enti di ottenere lo stesso gettito oggi garantito dallo sforzo fiscale sull’addizionale. Nell’audizione si è quindi proceduto a valutare in che misura gli interventi prospettati siano in grado di preservare adeguati spazi su cui gli Enti subnazionali possano esercitare la loro autonomia di entrata, elemento costitutivo della riforma del federalismo fiscale.

 

Utilizzando i dati disponibili più recenti si può stimare che applicando l’aliquota di sovraimposta che garantirebbe lo stesso gettito dell’addizionale a livello di comparto, solo il 50 per cento circa dei Comuni, in cui risiede circa un terzo della popolazione, riuscirebbe a mantenere un gettito invariato. Per consentire al complesso dei Comuni (nelle RSO e RSS) di mantenere i propri margini di autonomia, assicurando lo stesso gettito oggi potenzialmente conseguibile con l’applicazione dell’8 per mille (circa 6,2 miliardi), il livello massimo della sovraimposta andrebbe fissato al 3,78 per cento. In corrispondenza di questa aliquota la quota di Comuni che non otterrebbero il gettito riscosso con l’attuale addizionale scenderebbe a circa il 29,3 per cento (il 28 per cento in termini di popolazione). Si tratta sostanzialmente dei Comuni che oggi applicano un’aliquota media di addizionale elevata, superiore al 6 per mille: tra questi risulterebbero vincolati circa il 59,7 per cento degli Enti nelle RSO e l’81,3 per cento di quelli nelle RSS. Complessivamente il mancato gettito sarebbe pari a circa 109 milioni (circa l’8,6 per cento del gettito dell’addizionale precedentemente riscosso), di cui 92 milioni nelle RSO (8,3 per cento del gettito) e 17 nelle RSS (10,9 per cento del gettito).

 

Il passaggio alla sovraimposta, oltre a comportare modifiche permanenti del prelievo per i contribuenti (essendo più progressiva dell’addizionale), determina cambiamenti nel gettito riscosso in capo ai singoli Enti (capacità fiscale) e quindi, nel breve periodo, nei trasferimenti perequativi attraverso il Fondo di solidarietà comunale (FSC). Nella fase di transizione i Comuni che vedono aumentare la propria capacità fiscale incrementano comunque la propria dotazione di risorse, in quanto la compensazione delle maggiori capacità fiscali è solo parziale. Nel complesso la capacità fiscale della sovraimposta è maggiore di quella dell’addizionale soprattutto nel Nord-Ovest e in misura minore nel Centro (per il decisivo apporto di Roma), mentre è minore nel Sud. Dal 2030, tuttavia, quando la perequazione sarà integralmente basata sulla differenza fra fabbisogni e capacità fiscale queste variazioni nel gettito riscosso da ciascun Ente saranno interamente compensate dai trasferimenti e il passaggio alla sovraimposta non avrà alcun impatto sulle risorse a disposizione dei singoli Comuni.

 

Le variazioni del fondo perequativo, ridurrebbero il numero degli Enti vincolati anche con l’applicazione dell’aliquota del 3,78 per cento. Nel 2023 la percentuale di enti vincolati scenderebbe dal 29,3 menzionato in precedenza al 28,5 per cento (il 24,8 in termini di popolazione) con un gettito non recuperato di circa 64 milioni. A regime, con il passaggio alla perequazione totale, gli Enti vincolati diminuirebbero ulteriormente (24,6 per cento del totale, 20,8 in termini di popolazione) e le relative esigenze di compensazione si ridurrebbero a circa 35 milioni complessivi.

 

Un altro aspetto rilevante è l’impatto che il PNRR potrà avere sulla capacità degli Enti territoriali di offrire servizi ai propri cittadini – contribuendo a rafforzare le dotazioni infrastrutturali necessarie per le loro funzioni – e nel colmare le differenze tra Enti e territori lungo un percorso di progressiva convergenza.

 

Come già sottolineato in altre occasioni, una quota rilevante delle linee di investimento previste nell’ambito del PNRR coinvolge gli Enti territoriali come soggetti attuatori, soprattutto, nei settori di intervento che riguardano ambiti di competenza degli Enti decentrati (sanità e servizi sociali, oltre a rivoluzione verde e transizione ecologica). Si può stimare che si tratta di importi compresi tra circa 66 e 71 miliardi del Dispositivo per la ripresa e la resilienza (Recovery and resilience facility, RRF), ovvero tra il 34,7 e il 36,9 per cento del complesso di tali risorse destinate all’Italia per l’insieme delle missioni del PNRR.

 

Si ricorda, inoltre, che almeno il 40 per cento delle risorse territorializzabili del PNRR e del Fondo complementare (FC) finanziato con risorse nazionali dovranno essere destinate al Mezzogiorno, al fine di soddisfare uno degli obiettivi trasversali del Piano, volto alla riduzione dei divari territoriali nella prospettiva di garantire adeguati livelli di servizi sull’intero territorio nazionale. Da una prima analisi del Dipartimento per le politiche di coesione (DPCoe) della Presidenza del Consiglio dei ministri – incaricato del monitoraggio del rispetto del vincolo territoriale – emerge che nell’ambito delle risorse complessive prese in considerazione (pari a 222,1 miliardi, di cui 191,5 relativi alla RRF e 30,6 al FC) sono stati valutati come allocabili territorialmente 211,1 miliardi, di cui 86 miliardi sarebbero indirizzati al Mezzogiorno, soddisfacendo – con una quota generale pari al 40,8 per cento – il vincolo di destinazione disposto dalla normativa. Tale quota sintetizza tuttavia percentuali diverse per le Amministrazioni titolari, che risultano per più della metà intorno o superiori al vincolo del 40 per cento. Solo in due casi – per i Ministeri dello Sviluppo economico e del Turismo – le percentuali di risorse indirizzate al Mezzogiorno si situano a un livello significativamente inferiore al vincolo di destinazione, su valori compresi tra il 25 e il 30 per cento circa, ascrivibili a varie motivazioni tra le quali il fatto che in parte si tratta di misure per le quali la normativa primaria di riferimento non prevedeva riserve a favore del Mezzogiorno, la presenza di investimenti che devono attenersi ai principi di sostenibilità economico-finanziaria da valutare sulla base di criteri di mercato e la presenza di un meccanismo di open call che non rende possibile definire ex ante vincoli territoriali. Il rispetto del vincolo complessivo andrà comunque costantemente monitorato essendo le prime valutazioni del DPCoe basate, oltre che su stime e indicazioni preliminari, per circa un terzo delle risorse su indicazioni di adesione di principio al vincolo da parte delle Amministrazioni.

 

Inoltre, da una prima ricognizione del DPCoe riguardante misure già attivate con procedure competitive, che non hanno ancora condotto alla selezione dei progetti da finanziare, si evince come le scelte operate dalle Amministrazioni spesso non corrispondano a quanto richiesto espressamente dalla Circolare del Ministro per il Sud disposta con l’intento di garantire il rispetto del vincolo territoriale. Sembrano infatti emergere tre differenti fattispecie di procedure in base alle quali: i) le risorse non assegnate vengono comunque destinate ai territori meridionali a salvaguardia della quota Mezzogiorno, ma solo per poco più di un terzo del valore complessivo delle risorse oggetto dell’analisi; ii) le risorse non assegnate vengono allocate indipendentemente dalla localizzazione territoriale degli interventi; iii) non è previsto esplicitamente alcun criterio per la destinazione territoriale delle risorse non assegnate, e ciò si verifica per la maggior parte delle risorse.

 

Riguardo all’effettiva realizzazione degli obiettivi del PNRR si riscontrano tre principali criticità: la capacità delle Amministrazioni centrali di orientare, attraverso l’attivazione di bandi/avvisi pubblici, l’allocazione dei fondi tra Enti in modo coerente con gli obiettivi specifici e trasversali del Piano; l’adeguatezza delle strutture amministrative e tecniche dei livelli subnazionali di governo nel predisporre progetti adatti a rispondere alle diverse linee di investimento; gli attuali tempi di realizzazione delle opere, che riflettono le differenti capacità di programmazione e di gestione delle Regioni e degli Enti locali.

 

Con riferimento alla prima criticità, per verificare le modalità di integrazione tra gli obiettivi propri degli interventi e il vincolo territoriale, nell’audizione sono stati analizzati i 36 bandi pubblicati fino al 2 maggio per l’assegnazione delle risorse del PNRR agli Enti territoriali, per un valore complessivo di 24,3 miliardi, di cui il 43,3 per cento destinato al Mezzogiorno. Dall’analisi sono emerse differenti modalità nella strutturazione dei bandi che si concretizzano in sei differenti tipologie di formulazione della graduatoria dei progetti, ognuna delle quali presenta criticità in termini di possibili riordinamenti della graduatoria finale dei progetti selezionati rispetto a quella che si avrebbe in assenza di applicazione del vincolo territoriale, a discapito sia dell’efficienza sia del raggiungimento dell’obiettivo primario degli interventi. Per i bandi in cui sono previste graduatorie nazionali (sia unica che distinte per tematiche), il problema si verifica quando la graduatoria dei progetti che deriva dai criteri del bando non soddisfa il vincolo territoriale; in questo caso si rinuncerebbe a progetti più rilevanti dal punto di vista degli obiettivi specifici dell’intervento per consentire di finanziare progetti meno pertinenti ma localizzati nel Mezzogiorno. Nel caso delle graduatorie per macroaree con plafond determinato sulla base del vincolo territoriale, il raggiungimento dell’obiettivo proprio dell’investimento potrebbe risultare parzialmente ostacolato qualora le macroaree con le maggiori carenze infrastrutturali trovino una limitazione nell’esaurimento del plafond prestabilito. Nel caso di graduatorie regionali con plafond determinato sulla base dell’obiettivo primario, potrebbe verificarsi che – per effetto della pre-allocazione regionale – un ente in cui l’obiettivo primario sia stato già raggiunto venga comunque finanziato perché enti della stessa Regione, con maggiori gap strutturali, decidono di non partecipare al bando lasciando libere le risorse a loro destinate. Infine, per la procedura concertativa negoziale, seppure orientata a permettere una veloce attivazione della spesa evitando il ricorso a procedure concorrenziali, data la modalità di svolgimento (è prevista una prima fase di selezione dei progetti di massima e una seconda fase di negoziazione degli interventi con i soggetti proponenti) non è possibile valutare a priori l’adeguatezza dei criteri adottati e la relativa efficienza nell’assegnazione dei fondi.

 

Per quanto riguarda il secondo elemento di criticità, sia l’UPB sia altri osservatori hanno ampiamente sottolineato come le Amministrazioni per numerosi anni abbiano visto ridimensionare significativamente la dotazione di personale, a causa delle limitazioni al turn-over imposte dalle manovre correttive varate a partire dal 2010 ai fini del consolidamento dei conti pubblici. Ciò ha creato conseguenze sulla composizione per età e qualifica del personale e sul verificarsi di fenomeni ampiamente diffusi di rinuncia a svolgere direttamente funzioni quali la progettazione e la valutazione tecnica ed economica degli investimenti, affidandosi invece alla consulenza di professionisti del settore privato. In tale contesto di carattere generale, in studi di altre Istituzioni è stato osservato che la posizione del Mezzogiorno appare relativamente più problematica, avendo sperimentato una più intensa contrazione del personale ed essendo state le successive assunzioni a tempo indeterminato espletate principalmente tramite un maggiore ricorso alla stabilizzazione di lavoratori socialmente utili, con implicazioni non favorevoli sul ricambio generazionale e sulla possibilità di inserimento di addetti con titoli di studio più elevati.

 

Nella direzione di porre rimedio a tali problematiche e in relazione alle nuove esigenze legate all’attuazione del PNRR, il Governo ha disposto numerosi interventi che si articolano su più livelli. È stato previsto l’incremento delle facoltà di assunzione e il trasferimento di risorse, la semplificazione e l’accelerazione delle procedure concorsuali e l’adozione di piani estensivi di formazione nonché, nell’attesa dell’espletamento di tali attività, è stato disposto un programma di assistenza tecnica. L’introduzione di quest’insieme di strumenti non garantisce, tuttavia, un aumento effettivo della capacità amministrativa degli Enti territoriali e, in particolar modo, di quelli del Mezzogiorno. Tale aumento dipenderà dalla capacità degli Enti di sfruttare efficacemente le possibilità che sono state messe a loro disposizione negli ambiti di attuazione degli investimenti del PNRR. I primi dati disponibili sembrano segnalare qualche difficoltà al riguardo. Ad esempio, con riferimento a una specifica linea di investimento del PNRR riguardante il miglioramento e la meccanizzazione della rete di raccolta differenziata dei rifiuti urbani, mentre appaiono coerenti con il raggiungimento dei target fissati nel 2023 le richieste di personale della Sicilia, le altre due Regioni con il risultato peggiore (Basilicata e Calabria) hanno avanzato richieste di personale in linea con la media nazionale.

 

Il terzo elemento di criticità attiene agli attuali tempi di realizzazione delle opere, che riflettono le differenti capacità di programmazione e di gestione delle Regioni e degli Enti locali. Dalle procedure di appalto condotte tra il 2007 e il 2021 emerge che nel Mezzogiorno i tempi sono stati maggiori mediamente del 7 per cento rispetto al Centro, del 21 per cento rispetto al Nord-Est e del 22 per cento rispetto al Nord-Ovest.

 

I risultati delle analisi econometriche condotte dall’IRPET in collaborazione con l’UPB confermano che sia le modifiche già adottate per sostenere i progetti finanziati dal PNRR sia quelle del disegno di legge delega per la riforma dei contratti pubblici (in discussione in Parlamento) potranno concorrere a contenere i tempi di realizzazione delle opere e ridurre il gap del Mezzogiorno. In particolare, le stime suggeriscono che soluzioni semplificate e più flessibili, come quelle a cui la delega vorrebbe restituire maggiore spazio rispetto alla riforma del Codice degli appalti del 2016 (procedura negoziata, affidamento diretto, criterio del massimo ribasso di prezzo, appalto integrato), velocizzino l’affidamento e l’avvio dei cantieri senza ricadute negative in termini di lunghezza della loro esecuzione.

 

Tuttavia, non si deve sottovalutare la necessità di bilanciare i guadagni di semplificazione e flessibilità con una rinforzata attenzione alla qualità delle controparti. I risultati del modello mostrano con chiarezza che l’esperienza accumulata sia dalla stazione appaltante sia dalle imprese (approssimata con il numero di lavori conclusi nei quattro anni precedenti) sono associabili a riduzioni dei tempi di esecuzione e complessivi. Le misure adottate negli scorsi anni e gli indirizzi del disegno di legge delega si muovono in questa direzione, con una rinnovata attenzione al sistema di qualificazione delle stazioni appaltanti e al rating di impresa. Sarà opportuno rendere questi controlli di qualità delle controparti regolarmente operativi ed efficaci in tempi stretti, soprattutto pensando a quando, tra una decina di anni, sulle procedure di appalto non ci sarà più l’elevata attenzione delle istituzioni nazionali ed europee e degli organi di informazione che si registra adesso sui progetti del PNRR e del nuovo ciclo di programmazione europea (2022-27).

 

Un’efficace valutazione delle stazioni appaltanti e delle imprese è necessario anche per massimizzare gli effetti di altre due misure contenute nel disegno di legge delega: il primo è lo stimolo all’aggregazione delle stazioni appaltanti comunali, che i risultati delle analisi associano ad allungamenti dei tempi di realizzazione quando le unità che si consorziano condividono condizioni di partenza problematiche (come spesso nel Mezzogiorno); il secondo è il recepimento dello Small Business Act che, se troppo meccanico in tutte le aree del Paese, potrebbe, riservando spazi alle PMI e alle imprese di prossimità, tradursi in svantaggi di tempo e di costo.

 

Infine, un ultimo aspetto affrontato nell’Audizione riguarda la perequazione infrastrutturale. Si sottolinea che la ricognizione sulle infrastrutture riavviata di recente e mirata alla quantificazione dei fabbisogni è un prerequisito essenziale per valutare e ridurre il divario territoriale nell’attuale dotazione e per utilizzare nel modo più efficiente il complesso delle risorse a disposizione nei prossimi anni. La corretta quantificazione dei gap infrastrutturali è cruciale, oltre che per indirizzare le priorità di investimento e la relativa programmazione (per settori e per macroarea), per superare i criteri storici di ripartizione delle risorse e passare ad assegnazioni esclusivamente basate sulle effettive esigenze di riequilibrio del territorio. Ciò consentirebbe di non dover prevedere quote di riserva specifiche in favore del Mezzogiorno, spesso tra loro diverse e di difficile integrazione, che diverrebbero automatiche se l’obiettivo è quello di colmare i divari nelle dotazioni infrastrutturali. L’attività in corso di svolgimento per la fissazione dei criteri di riparto del Fondo per la perequazione infrastrutturale è anch’essa cruciale potendo rappresentare l’inizio di un cambio di rotta nell’assegnazione delle risorse e potrebbe anche porre le basi per un maggiore coordinamento sia dei vari interventi aggiuntivi durante tutte le fasi (dalla scelta delle opere da realizzare per territorio e per settore, al monitoraggio degli avanzamenti, alla messa in funzione), sia di questi con gli interventi ordinari in conto capitale dello Stato che, in base alla L. 18/2017, devono indirizzarsi al Mezzogiorno per una quota pari al 34 per cento.