Tendenze e prospettive per l’economia e la finanza pubblica
Approfondimenti su spese per la difesa, mercato del lavoro ed effetti degli incentivi alle imprese
11 giugno 2025 | Il Rapporto sulla politica di bilancio dell’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) è stato presentato oggi alla sala Zuccari del Senato della Repubblica. La Presidente dell’UPB Lilia Cavallari ha esposto la sua relazione, seguita dagli approfondimenti dei Consiglieri Valeria De Bonis e Giampaolo Arachi e dall’intervento conclusivo del Ministro dell’Economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti.
Il Rapporto dell’UPB ogni anno illustra le tendenze recenti e le prospettive dell’economia italiana e della finanza pubblica, anche in relazione al contesto internazionale, e aggiunge alcuni approfondimenti tematici. Questi ultimi sono quest’anno dedicati alle implicazioni per l’Italia delle iniziative della UE per il settore della difesa, al mercato del lavoro e alla produttività dopo la pandemia e alla valutazione degli effetti degli incentivi agli investimenti delle imprese e alle questioni oggi aperte in relazione a essi.
Nella sua Relazione, la Presidente Cavallari ha sottolineato come la prospettiva di crescita moderata per l’Italia, nonostante i rischi al ribasso delle previsioni a causa delle tensioni commerciali e geopolitiche internazionali, non è ineluttabile. Allo sviluppo dell’attività economica possono contribuire una più decisa attuazione delle riforme e degli investimenti, anche oltre l’orizzonte del PNRR; un ulteriore impulso potrebbe derivare dal mercato del lavoro, se continueranno ad aumentare i tassi di partecipazione e verrà rafforzata la capacità di attrarre lavoratori qualificati. La linea di prudenza e responsabilità sulla finanza pubblica ha dato i suoi risultati e gli andamenti dei conti sono apprezzabili anche alla luce del deterioramento dello scenario macroeconomico internazionale, ma deve essere mantenuta con impegno e costanza per tenere alta la fiducia dei mercati, delle famiglie e delle imprese. Occorrono capacità di visione e trasparenza – ha aggiunto la Presidente – per assicurare finanze pubbliche stabili e accompagnare le trasformazioni dell’economia e della società, sbloccandone il potenziale di crescita.
Di seguito un riepilogo dei principali temi trattati nel Rapporto sulla politica di bilancio di quest’anno.
Il quadro macroeconomico e le previsioni
Un contesto internazionale già fragile si è deteriorato rapidamente quest’anno, con l’inasprimento della guerra commerciale avviata dagli Stati Uniti d’America. Le stime dell’impatto economico delle nuove barriere commerciali indicano effetti avversi, notevolmente differenziati tra paesi e settori, ma la loro quantificazione è soggetta a margini di aleatorietà, legati alle reazioni degli attori coinvolti. Molto dipenderà dalla durata dei dazi, dalle ritorsioni di altri paesi e dalle reazioni di mercati, imprese, famiglie e, non secondariamente, delle banche centrali.
Secondo le stime dell’UPB i settori dell’economia italiana più colpiti dai dazi degli Stati Uniti sarebbero l’industria farmaceutica, l’attività estrattiva e la produzione di autoveicoli, con perdite occupazionali più significative nei comparti della fabbricazione dei prodotti in metallo, di macchinari e nel settore tessile. L’attività estrattiva segnerebbe una forte perdita di valore aggiunto, in quanto è fortemente interconnessa con le diverse attività manifatturiere; effetti rilevanti, sebbene indiretti, riguarderebbero alcuni comparti dei servizi come le attività professionali (studi di architettura, ingegneria, legali, contabilità e gestione), la pubblicità e i servizi di ricerca e fornitura del personale.
Le variabili esogene del Documento di finanza pubblica 2025 (DFP) hanno in gran parte recepito il deterioramento del contesto internazionale che si è realizzato tra l’autunno e la primavera scorsa. Alla maggiore incertezza globale le banche centrali hanno reagito con un orientamento più cauto, così come le scelte di consumo delle famiglie e di investimento delle imprese.
Per l’economia italiana il 2024 si è concluso con una crescita dello 0,7 per cento, per la prima volta dal 2021 al di sotto dell’area dell’euro (0,9 per cento). Accanto a un modesto incremento dei consumi delle famiglie (0,4 per cento), frenati dall’aumento della propensione al risparmio, si è evidenziato il rallentamento degli investimenti (0,5 per cento); l’accumulazione di capitale sembra avere esaurito la robusta dinamica post pandemica, ma è stata trainata dalla componente delle costruzioni e dei prodotti della proprietà intellettuale. La produzione industriale l’anno scorso è rimasta debole, ma negli ultimi mesi sono emersi alcuni segnali di lieve ripresa; nel complesso del 2024 il valore aggiunto è stato prevalentemente sospinto dai servizi. L’inflazione lo scorso anno si è ridotta all’1,0 per cento, risalendo comunque verso quota 2,0 nei mesi recenti. L’occupazione ha segnato un aumento dell’1,6 per cento e il tasso di disoccupazione si è ridotto al 6,5 per cento; parallelamente, le retribuzioni contrattuali sono aumentate del 3,0 per cento nel 2024, più dell’inflazione, sebbene in termini reali rimangano ancora significativamente inferiori ai livelli del 2021.
Due rilevanti sfide strutturali non vanno sottovalutate: le tendenze demografiche, che vedono in Italia la contrazione delle nascite e fenomeni migratori interni (con i residenti nel Mezzogiorno in calo e quelli al Nord in crescita) e il cambiamento climatico, al quale l’Italia è fortemente esposta; l’aumento delle temperature, che ha ripercussioni anche sulla demografia d’impresa, ha impatti eterogenei tra le diverse aree del Paese per cui può contribuire ad accrescere i divari territoriali. In Europa i Paesi del Mediterraneo sono i più colpiti dal climate change e sono anche quelli con minori capacità di adattamento a causa di spazi fiscali ridotti.
Gli incentivi all’edilizia nel periodo post pandemico hanno esercitato un forte stimolo all’attività economica, sebbene i ritorni siano stati decrescenti con l’aumento delle risorse impegnate nel tempo. Secondo una ricostruzione storica controfattuale per il quadriennio 2020-23, condotta dall’UPB, l’impatto complessivo cumulato sul PIL degli investimenti attivati dagli incentivi edilizi è stimato in quasi quattro punti percentuali, sebbene con delle pressioni sui prezzi. L’intervento è stato particolarmente efficace subito dopo la pandemia: in particolare, le agevolazioni hanno contribuito per circa 1,5 punti percentuali alla crescita del PIL nel 2021, mantenendo un effetto positivo ma decrescente, nel biennio successivo; nel 2024 la cessazione del Superbonus ha inciso negativamente, per un punto percentuale sul PIL. L’addizionalità degli interventi è stata elevata nella fase immediatamente successiva alla crisi sanitaria per poi ridursi significativamente. In particolare, nel biennio 2022-23 solamente il 60 per cento degli investimenti in edilizia residenziale sarebbe stato realizzato grazie agli incentivi, sollevando quindi interrogativi sul profilo di efficienza della misura nel medio periodo. Se l’intervento del Superbonus fosse stato circoscritto temporalmente alle fasi iniziali, caratterizzate da una maggiore capacità di attivazione, la valutazione complessiva del provvedimento ne avrebbe probabilmente guadagnato in termini di rapporto tra costi pubblici e benefici economici complessivi.
Le previsioni macroeconomiche
Nel 2024 le previsioni sul PIL del Governo sono state stabili; le attese del Piano strutturale di bilancio di medio termine (PSB) sulla crescita del 2024, al netto delle revisioni dei dati trimestrali, sono risultate accurate e sostanzialmente centrate. Nel DFP, presentato lo scorso aprile, le previsioni macroeconomiche tendenziali sono state invece nettamente ridimensionate, principalmente a causa della guerra commerciale, in precedenza solo parzialmente inclusa nelle previsioni. Sono state ridotte significativamente le attese sul PIL reale del 2025 e 2026, mentre sul PIL nominale la revisione è stata graduale negli ultimi tre documenti di programmazione.
Il quadro macroeconomico per il quadriennio 2025-28 contenuto nel DFP 2025 è stato validato dall’UPB, in quanto le attese sulle principali variabili appaiono all’interno di un accettabile intervallo di valutazione. Le stime sulla crescita del PIL non eccedono mai il valore massimo dell’intervallo definito dal panel dei previsori dell’UPB, sebbene si collochino su tale estremo in due dei quattro anni previsti. A fine periodo (2028), il livello del PIL nel quadro del MEF risulterebbe più elevato rispetto a quello del 2024 di 3,0 punti percentuali, marginalmente sopra il valore massimo del panel. Per il PIL nominale, l’aumento cumulato delineato dal MEF coincide invece con l’estremo superiore.
Le previsioni macroeconomiche contenute nel DFP si confermano, allo stato attuale, in linea con le valutazioni delle principali istituzioni e degli analisti privati, nonostante l’evoluzione del contesto internazionale e gli sviluppi della guerra commerciale intervenuti dopo la pubblicazione del documento. Il DFP è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 aprile, da allora si sono susseguiti importanti sviluppi, in parte ondivaghi, sulla guerra commerciale e sui mercati finanziari. Tuttavia, le previsioni sul PIL del DFP restano coerenti con quelle più recenti di istituzioni e analisti privati; non ci sono forti scostamenti anche sul PIL nominale, sebbene le attese del MEF sul deflatore appaiano lievemente più elevate di quelle degli altri previsori.
Le previsioni dell’UPB delineano una fase di moderata espansione dell’economia italiana quest’anno e lievemente superiore, se pur in misura più cauta rispetto al MEF, negli anni successivi. Moderata inflazione, tenuta dell’occupazione e spinta dal PNRR sono gli elementi di sostegno alla crescita nelle previsioni fino al 2026. Tuttavia, il quadro è esposto a diversi rischi prevalentemente orientati al ribasso per le tensioni del commercio internazionale e del contesto geopolitico, insieme all’evoluzione del PNRR e alle incombenti criticità ambientali e climatiche, sempre più pressanti.
Gli scenari elaborati dall’UPB ipotizzano un impatto negativo sul PIL dell’Italia dai dazi pari a due decimi di punto nel 2026 e un decimo di punto nel 2027. L’eventuale differimento di una quota della spesa del PNRR al 2027 porta alcune variazioni sulla crescita, in particolare nel 2026-27, che comunque risulta invariata nella media dell’intero periodo 2025-28.
Le analisi retrospettive sull’accuratezza delle proiezioni macroeconomiche ufficiali degli ultimi cinque anni indicano che le previsioni sul PIL (in volume e in termini nominali) sono state, ex post, complessivamente accettabili; gli “errori” di previsione, da un lato, scontano l’effetto delle revisioni al rialzo dei conti nazionali apportate negli ultimi anni e, dall’altro, risentono moltissimo di eventi eccezionali e non prevedibili, quali la pandemia e la guerra in Ucraina, lungo tutto il periodo.
La finanza pubblica nel 2024
Nel 2024 il deficit delle Amministrazioni pubbliche è risultato pari al 3,4 per cento del PIL e migliore rispetto alle attese grazie a maggiori entrate. Il calo rispetto al 7,2 per cento dell’anno precedente è dovuto soprattutto ai minori effetti del Superbonus; è tornato positivo dopo quattro anni, allo 0,4 per cento del PIL, il saldo primario. La spesa primaria, la componente principale dell’indicatore della spesa netta previsto dalla nuova governance della UE, ha registrato una riduzione del 4,6 per cento, in linea con gli obiettivi presentati nel PSB 2025-29 e confermati nel DPB. La pressione fiscale è aumentata di 1,2 punti percentuali rispetto al 2023, attestandosi al 42,6 per cento del PIL, e la spesa per interessi è salita dal 3,7 al 3,9 per cento del PIL per effetto dell’aumento dei tassi di interesse degli anni passati. Il rapporto tra il debito e il PIL ha interrotto la discesa del triennio precedente ed è tornato a crescere, raggiungendo il 135,3 per cento, prevalentemente per i crescenti impatti di cassa dei crediti fiscali edilizi maturati negli anni passati.
Il disavanzo complessivo è ancora superiore di 2 punti percentuali di PIL rispetto al 2019, differenza prevalentemente data dal maggiore deficit in conto capitale (investimenti pubblici e contributi agli investimenti, finanziati anche da prestiti UE legati al PNRR). La spesa primaria corrente in rapporto al PIL è tornata ai livelli pre pandemici e le entrate, sempre rispetto al prodotto, hanno visto solo lievi oscillazioni. Il rapporto tra il debito e il PIL, rimane superiore di 1,4 punti percentuali rispetto a quello registrato nell’anno precedente alla pandemia.
Il PSB 2025-29 presentato dal Governo alla UE a ottobre 2024 adotta per la prima volta un orizzonte di programmazione di cinque anni; inoltre, il Governo ha richiesto alla Commissione europea di estendere il periodo di aggiustamento dei conti pubblici a sette anni, impegnandosi in un piano di riforme e investimenti in continuità con il PNRR.
Gli spazi di bilancio rispetto al quadro a legislazione vigente (0,4 punti percentuali di PIL per il 2025, 0,7 nel 2026 e 1,1 nel 2027) che venivano prefigurati nel PSB sono stati utilizzati nell’ambito della manovra per il 2025, mentre si confermava l’obiettivo di discesa del deficit sotto al 3 per cento nel 2026. La crescita programmatica della spesa netta del PSB era stabilita, in media, pari all’1,5 per cento nei sette anni del periodo di aggiustamento (2025-2031), in linea con la traiettoria di riferimento della Commissione europea ma con una modulazione differente sugli anni: 1,3 per cento nel 2025, in aumento nel biennio successivo fino all’1,9 per cento nel 2027, in diminuzione fino all’1,5 per cento nel 2029 e all’1,1 e all’1,2 per cento nel 2030 e nel 2031. Il rapporto tra il debito e il PIL era atteso aumentare fino al 137,8 per cento nel 2026 e poi ridursi a ritmi crescenti fino al 134,9 per cento nel 2029, fino a raggiungere circa il 114 per cento del PIL nel 2041.
L’UPB ha valutato il percorso programmatico definito nel PSB in linea con il nuovo quadro di regole del Patto di stabilità e crescita. Il percorso implica un aggiustamento di bilancio impegnativo e prolungato nel tempo, in grado di assicurare una riduzione plausibile del debito in rapporto al PIL nel medio periodo, preservando al tempo stesso gli investimenti pubblici. Lo sforzo di consolidamento sarà mitigato dalle sovvenzioni della UE legate al PNRR e dai fondi di coesione fino al 2026 e successivamente dal contributo alla crescita derivante dalle riforme e dagli investimenti del PSB.
Rischi e incertezze per la realizzazione del PSB riguardano, nel breve termine, la piena attuazione delle riforme e degli investimenti del PNRR e l’effettiva realizzazione del programma di dismissioni mobiliari scontato nell’evoluzione del rapporto fra debito e PIL; nel medio-lungo termine, derivano dalla transizione demografica, dall’impatto del cambiamento climatico e della transizione energetica, nonché dall’incertezza geopolitica. Valutazioni preliminari degli effetti degli eventi atmosferici estremi in Italia mostrano che l’impatto annuale sulla finanza pubblica potrebbe essere ridotto nel 2050 da 5,1 punti percentuali di PIL a 0,9 attraverso politiche coordinate a livello globale per il raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2050.
La finanza pubblica nel 2025 e nel biennio 2026-27
La manovra 2025 approvata alla fine dello scorso anno ha utilizzato quasi integralmente gli spazi di bilancio disponibili. A meno di miglioramenti della dinamica della spesa netta, eventuali nuovi interventi dovranno, quindi, trovare copertura attraverso aumenti di entrate o riduzioni di spese strutturali.
Della manovra fanno parte le misure che hanno reso strutturali la decontribuzione – attraverso l’introduzione di un bonus e di detrazioni specifiche per il lavoro dipendente – e l’accorpamento delle aliquote dell’Irpef disposto per il solo 2024. Si tratta di modifiche che, da un lato, danno maggiore stabilità al sistema ma, dall’altro, aumentano la sensibilità dell’imposta personale sul reddito all’inflazione, soprattutto per i lavoratori dipendenti. In base a stime ottenute con il modello di microsimulazione dell’UPB, nel passaggio dal regime 2022 a quello 2025, il maggiore prelievo da drenaggio fiscale associato a 2 punti percentuali di inflazione è più alto di circa 370 milioni (+13 per cento). L’intensificazione del drenaggio fiscale è concentrata sui lavoratori dipendenti anche se in misura differenziata: la variazione percentuale dell’imposta dovuta a tale fenomeno passa dal 3,2 al 5,5 per cento per gli operai e dall’1,7 al 2,3 per cento per gli impiegati. In un contesto in cui la dinamica retributiva è già risultata insufficiente a compensare l’inflazione, l’intensificazione del prelievo fiscale derivante dall’interazione tra quest’ultima e la progressività dell’imposta rischia di erodere in misura considerevole gli incrementi nominali delle retribuzioni, con potenziali ricadute negative sui consumi e sulla domanda interna. In assenza di un’indicizzazione dei parametri, verrebbero erosi anche i benefici che si intendevano apportare con le misure di sostegno al reddito, rendendole progressivamente meno efficaci.
Oscillazioni anche moderate dei tassi di rendimento all’emissione hanno un impatto significativo sulla spesa per interessi. In base a stime interne, una diminuzione permanente del tasso medio all’emissione pari a cento punti base indurrebbe un risparmio per il servizio del debito pari a circa 21 miliardi complessivi nell’arco di tre anni. Un impegno di risanamento credibile consente dunque di accelerare il rientro del disavanzo e la discesa del debito, liberando in prospettiva risorse che potrebbero trovare impieghi produttivi e socialmente desiderabili.
Il DFP 2025, presentato ad aprile dal Governo, include la Relazione annuale sui progressi compiuti (Annual Progress report, APR) prevista dalla nuova governance della UE. Il documento ha aggiornato il quadro tendenziale per il triennio 2025-27 e fornito solo alcune indicazioni per il 2028.
I disavanzi tendenziali delineati nel DFP per il periodo 2025-27 confermano i valori programmatici del PSB nonostante l’indebolimento delle previsioni di crescita dell’economia, grazie alla revisione al rialzo delle entrate, dovuta anche ai risultati migliori del previsto per il 2024. Il deficit pubblico passa dal 3,4 per cento del PIL nel 2024 al 3,3 nel 2025, al 2,8 nel 2026 e al 2,6 nel 2027, con una diminuzione media annua di 0,3 punti percentuali, attestandosi poi al 2,3 per cento nel 2028. Per l’avanzo primario è previsto il miglioramento fino all’1,5 per cento del PIL nel 2027, mentre dall’anno prossimo la spesa per interessi cresce fino al 4,2 per cento del 2027, per effetto del rialzo dello scorso marzo della curva dei tassi di interesse, generalizzato per tutti i paesi dell’area dell’euro, e per i livelli elevati di emissioni. Secondo lo scenario a legislazione vigente, il rapporto debito/PIL sale al 137,6 per cento nel 2026 per poi scendere nel biennio successivo, fino al 136,4 per cento nel 2028, con un andamento, rispetto al PSB, lievemente più favorevole fino al 2027 e allineato con l’obiettivo nel 2028.
L’UPB ha valutato positivamente la conferma degli obiettivi ma il quadro di finanza pubblica presenta diversi elementi di incertezza: le prospettive economiche a fronte della volatilità dei mercati e dell’incertezza geopolitica, l’esecuzione del PNRR, dove il rischio di non realizzare interamente la spesa entro il termine del 2026 è significativo, e l’emergere di nuove priorità di bilancio, in particolare la necessità di rafforzare il settore della difesa. Le previsioni di discesa del debito dipendono inoltre dall’effettiva realizzazione del programma di privatizzazioni e dalla riduzione delle giacenze di liquidità.
Nel contesto della modifica in corso della normativa nazionale di finanza pubblica, che tiene conto della riforma della governance economica europea, il DFP 2025 rappresenta un documento transitorio e adotta un profilo intermedio che, da una parte, contiene maggiori informazioni rispetto al minimo richiesto dalla nuova governance ma, dall’altra, riporta solo una parte di quanto presentato usualmente al Parlamento italiano nel Documento di economia e finanza.
Il DFP ha aggiornato il quadro tendenziale per il triennio 2025-27 e ha fornito solo alcune indicazioni per il 2028, presentandosi quindi come un documento di aggiornamento e non come un documento di programmazione. In questa occasione il quadro di finanza pubblica tendenziale non si discostava dagli obiettivi indicati nel PSB ma, in prospettiva, qualora la crescita tendenziale della spesa netta fosse superiore a quella stabilita nel PSB approvato dal Consiglio della UE, sarebbe necessario indicare nel DFP gli obiettivi almeno in termini di indebitamento netto delle Amministrazioni pubbliche e la corrispondente dinamica del debito, tali da riportare il percorso della spesa netta entro i limiti stabiliti nel PSB. Inoltre, le indicazioni programmatiche sulle principali misure della manovra sono state rinviate a ridosso della legge di bilancio, laddove invece con il DEF si informavano in termini generali il Parlamento e l’opinione pubblica entro aprile delle possibili aree di intervento e dei settori da cui ricavare le eventuali coperture nella successiva legge di bilancio.
La presentazione del DFP avrebbe potuto costituire l’occasione per adeguare l’orizzonte di previsione e programmazione a quello del PSB, rafforzando l’orientamento di medio termine della programmazione di bilancio, come richiesto dalla nuova governance europea. Una rafforzata programmazione di medio termine ha benefici in termini di stabilità e prevedibilità degli obiettivi di bilancio e dell’intervento pubblico in generale, contribuisce a ridurre l’incertezza e creare un ambiente favorevole a interventi di ampio respiro da parte del settore pubblico e degli operatori economici, oltre a potenziare la capacità di indirizzo e di controllo da parte del Parlamento. L’auspicio è che la revisione della legge 196/2009, attualmente in discussione, incorpori sia un orizzonte di previsione analogo al PSB sia l’avvio del ciclo annuale della programmazione entro la prima metà dell’anno.
Le iniziative della UE per il settore della difesa e le implicazioni per l’Italia
Le proposte elaborate dalla Commissione europea con il piano REArm Europe – Readiness 2030 per rafforzare le capacità di difesa e sicurezza degli Stati membri permettono di attivare, in maniera coordinata, la clausola di salvaguardia nazionale con una deviazione fino a 1,5 punti percentuali di PIL all’anno nel periodo 2025-28 rispetto ai limiti di spesa netta stabiliti dal Consiglio, per finanziare maggiori spese per la difesa in rapporto al PIL rispetto al livello registrato nel 2021 e senza compromettere la sostenibilità del debito nel medio termine. In questo contesto, la Commissione ha proposto una serie di altri strumenti come il SAFE (Security Action for Europe), ovvero prestiti UE per finanziare maggiori spese per la difesa in modo coordinato da parte di almeno due paesi, recentemente adottato dal Consiglio dell’Ue, nonché la possibilità di reindirizzare i fondi di coesione non ancora utilizzati o di accedere a prestiti della BEI per progetti legati alla difesa. L’efficacia dell’iniziativa dipenderà da molteplici elementi di governance (disponibilità a integrare i sistemi di difesa nazionali e a consolidare la base industriale della difesa a livello europeo) e di bilancio (incremento di risorse, spazi di bilancio disponibili e sostenibilità del debito).
Nel suo “pacchetto di primavera” di questo mese, la Commissione ha invitato il nostro Paese a rafforzare la spesa complessiva per la difesa in linea con le conclusioni del Consiglio europeo di marzo. Secondo la classificazione COFOG, nel 2023 l’Italia ha destinato alla funzione difesa 25,6 miliardi, pari all’1,2 per cento del PIL, appena al di sotto della media europea (1,3). Adottando la più ampia metodologia NATO di contabilizzazione delle spese per difesa, in base alle stime preliminari per il 2024 la spesa italiana è stata pari all’1,5 per cento del PIL (a fronte di un valore superiore al 2 per cento di Francia e Germania, e di oltre il 3 per cento di Polonia, Grecia e Paesi baltici eccetto la Lituania), evidenziando una crescita significativa rispetto all’1,1 per cento del 2014.
La legge di bilancio per il 2025 prevede un incremento delle spese della difesa, rispetto allo scenario a legislazione vigente, complessivamente di 3,9 miliardi nell’anno in corso, 3,3 miliardi nel 2026 e 4,6 miliardi nel 2027. Nel DFP viene evidenziato lo stanziamento di 35 miliardi destinato agli investimenti nel settore della difesa tra il 2025 e il 2039, di cui circa 22,5 destinati direttamente al Ministero della Difesa.
Visto l’alto livello del rapporto tra debito e PIL e la necessità di rispettare il quadro di regole della UE, la sfida principale per l’Italia consisterà nel bilanciare l’eventuale incremento della spesa per la difesa con le esigenze di mantenimento della sostenibilità delle finanze pubbliche. L’UPB ha valutato il possibile impatto macroeconomico per l’Italia dell’eventuale attivazione della clausola di salvaguardia attraverso due scenari distinti.
In caso di un uso moderato della flessibilità per spese per la difesa (0,25 punti di PIL nel 2025 e 0,5 punti l’anno nel triennio 2026-28), si avrebbero effetti lievi e temporanei sulla crescita, con un aumento cumulato di 0,3 punti percentuali di PIL nel periodo 2025-28. L’avanzo primario si ridurrebbe rispetto alle traiettorie del PSB, attestandosi all’1,8 per cento del PIL nel 2028 (circa 0,1 punti di PIL in meno rispetto alle stime del PSB). Nel 2041, convergerebbe al 2,2 per cento del PIL (0,5 punti percentuali al di sotto delle stime di lungo periodo del PSB). Il disavanzo scenderebbe permanentemente sotto la soglia del 3 per cento del PIL nel 2027, in ritardo di un anno rispetto a quanto stabilito dal PSB. Per quanto riguarda il rapporto debito/PIL, risulterebbe più elevato rispetto allo scenario del PSB, con uno scostamento di 1 punto percentuale nel 2028 (al 137,3 per cento) e di 1,4 punti nel 2031 (133,9 per cento). Nella proiezione al 2041, il rapporto si manterrebbe comunque su una traiettoria discendente, attestandosi al 125,4 per cento.
In uno scenario di ricorso più marcato alla clausola di salvaguardia (aumento graduale fino a 1,5 punti di PIL nel 2028), si avrebbe un effetto cumulato stimato pari a circa 1 punto percentuale nel quadriennio 2025-28. L’avanzo primario si ridurrebbe rispetto alle traiettorie del PSB, attestandosi all’1,1 per cento del PIL nel 2028 (circa 0,8 punti di PIL in meno rispetto alle stime del PSB). Nel 2041, convergerebbe all’1,2 per cento del PIL (1,5 punti percentuali al di sotto delle stime di lungo periodo del PSB). Il disavanzo scenderebbe al di sotto del 3 per cento del PIL solo nel 2030 ma tornerebbe stabilmente al di sopra dal 2034, mentre il rapporto debito/PIL risulterebbe più elevato rispetto allo scenario del PSB, salendo al 137,7 per cento nel 2028 e al 136,3 per cento nel 2031, con un incremento di 3,8 punti percentuali rispetto al Piano. Nella proiezione al 2041, il rapporto continuerebbe ad aumentare fino al 138,9 per cento del PIL, oltre 25 punti sopra la corrispondente proiezione del PSB e al di sopra del livello del 2024.
Quindi, l’incremento della spesa per la difesa genererebbe un effetto espansivo sul PIL, ma si ridurrebbe significativamente l’avanzo primario, porterebbe un ritardo nella discesa dell’indebitamento netto al di sotto della soglia del 3 per cento e un deterioramento dell’andamento del rapporto debito/PIL. Nel caso di richiesta di attivazione della clausola di salvaguardia nazionale, il prossimo PSB dovrà delineare un percorso di aggiustamento compatibile con l’assorbimento degli scostamenti eventualmente autorizzati dalla UE, al fine di ristabilire un sentiero di plausibile riduzione del debito e non compromettere la sostenibilità delle finanze pubbliche nel medio periodo.
Il mercato del lavoro e la produttività dopo la pandemia
Il mercato del lavoro negli ultimi anni mostra una sorprendente capacità di generare occupazione, superando anche i livelli pre-crisi. L’espansione dell’occupazione riflette una notevole riduzione del numero di individui inattivi e una marcata riduzione dei salari reali. I salari reali sono diminuiti negli ultimi anni, a causa di un aumento dell’inflazione più rapido rispetto alle retribuzioni nominali: l’incremento delle retribuzioni nominali orarie tra il 2019 e il 2024 è stato la metà di quello dei prezzi al consumo. Tale dinamica, insieme agli effetti delle politiche di sostegno all’occupazione durante la crisi pandemica, ha reso il fattore lavoro più conveniente rispetto al capitale, determinando un contributo negativo dell’intensità di capitale alla produttività del lavoro.
Nel periodo successivo alla pandemia si è registrata una significativa transizione di persone, soprattutto inattive, verso un’occupazione con bassi salari; i flussi sono stati intensi soprattutto per donne (53 per cento dei nuovi occupati), giovani e individui con istruzione elevata. A livello geografico e settoriale ha prevalso l’attivazione di nuova occupazione nel Mezzogiorno (la quota è superiore di circa 10 punti percentuali rispetto a quella di chi già lavorava) e nel turismo (alloggio, ristorazione, trasporti). Marcato l’uso di contratti a tempo determinato, in particolare nei servizi legati al turismo (commercio, servizi di alloggio e trasporti, servizi immobiliari); una quota più alta dell’occupazione permanente si è invece osservata nelle costruzioni e nella pubblica amministrazione.
L’UPB ha approfondito l’analisi dei flussi di lavoro per valutare il riposizionamento dei lavoratori tra imprese e settori in quanto segno di dinamismo economico. Nell’ultimo decennio i movimenti di risorse umane tra i vari settori risultano meno intensi, anche se dopo la pandemia si sono registrati andamenti meno sfavorevoli per il commercio e le costruzioni. L’analisi sulla riallocazione settoriale nella manifattura italiana mostra che i recuperi di produttività associati agli spostamenti si manifestano con ritardo e difficilmente accrescono anche i salari.
Negli ultimi anni la produttività del lavoro è stata frenata dalla componente relativa all’industria in senso stretto. La produttività dell’industria, tra il 2020 e il 2024 è stata negativa in quattro anni su cinque. Un’analisi settoriale per l’intera economia indica che la riallocazione tra settori ha contribuito negativamente alla produttività del fattore lavoro, indicando un riassorbimento dell’occupazione in settori a bassa produttività e bassa remunerazione, mentre quella all’interno dei settori ha contribuito positivamente al recupero di efficienza.
Un’analisi micro-econometrica delle caratteristiche individuali dei lavoratori e delle imprese indica che l’istruzione ha un ruolo preminente nello spiegare la produttività marginale. Dei 2,4 punti percentuali di variazione della produttività nel periodo 2014-23 che il modello spiega, una quota preponderante è ascrivibile all’impiego di occupati con studi universitari o superiori, nelle fasce d’età più mature, nelle professioni intellettuali e nelle imprese grandi. L’istruzione appare come la variabile che maggiormente ha contribuito all’incremento di produttività sia per il suo forte impatto diretto sia per l’aumento degli occupati qualificati; al contrario, la diffusione dei contratti a tempo determinato ha fornito un contributo negativo.
L’efficacia degli incentivi Industria/Transizione 4.0 alle imprese
L’UPB ha infine approfondito il tema degli incentivi agli investimenti delle imprese, ai quali, nell’ultimo decennio, è stato fatto un ampio e crescente ricorso per orientare le scelte di investimento delle imprese, con particolare attenzione alla trasformazione digitale e tecnologica. Si è assistito al progressivo passaggio da deduzioni, ossia strumenti che riducono la base imponibile (dal 2017 al 2019 erano previste maggiorazioni degli ammortamenti), a sostegni sotto forma di crediti d’imposta (a partire dal 2020) compensabili e talvolta cedibili e rimborsabili. Questa evoluzione ha determinato cambiamenti sostanziali in termini di accessibilità ed efficacia degli incentivi dato che i due strumenti – seppure entrambi automatici una volta soddisfatte le condizioni stabilite per l’investimento – hanno caratteristiche diverse.
In generale, l’utilizzo delle agevolazioni fiscali aumenta l’incertezza dei conti pubblici dato che vi è una maggiore difficoltà di prevederne l’utilizzo effettivo, che dipende dalle reazioni comportamentali degli agenti economici, determinando discrepanze maggiori tra le previsioni iniziali di perdita di gettito contenute nelle relazioni tecniche dei singoli provvedimenti e quella che si realizza effettivamente. Inoltre, il passaggio da deduzioni a crediti d’imposta ha accelerato e accresciuto la fruibilità potenziale delle agevolazioni aumentando, in assenza di tetti alla spesa, i rischi per la sostenibilità dei conti pubblici. Per questi motivi dal 2024, per alcune agevolazioni, sono state introdotte limitazioni quantitative (tetti di spesa) e sono stati previsti adempimenti procedurali per la loro assegnazione (controlli ex ante) e sistemi di monitoraggio (controlli ex post). Questi, tuttavia, se da una parte permettono un maggiore controllo del costo per la finanza pubblica, dall’altra, tendono a ridurre, per le imprese, il vantaggio derivante dallo strumento tributario (automatico) rispetto ai sussidi diretti. A legislazione vigente, la maggior parte delle agevolazioni scadrà nel 2025 e, sebbene non siano ancora chiare le linee di intervento, è possibile e auspicabile che il futuro quadro degli incentivi possa differenziarsi da quello che ha caratterizzato gli ultimi anni, sfruttandone l’esperienza.
In una fase storica caratterizzata da importanti sfide dettate dalle transizioni tecnologica e ambientale e da un profondo mutamento della distribuzione delle catene del valore, è opportuno che la politica industriale eviti un utilizzo improduttivo delle scarse risorse pubbliche. Di conseguenza, le valutazioni ex post degli effetti delle politiche d’incentivazione assumono un ruolo determinante per l’eventuale conferma delle politiche attuali e/o per la definizione di quelle nuove. È auspicabile che il disegno di nuovi incentivi sia corredato da elementi che agevolino la realizzazione di tali analisi di valutazione per aumentare l’efficienza e l’efficacia della politica industriale.
Il capitolo fornisce quindi un contributo all’analisi d’impatto delle recenti politiche di agevolazione fiscale per gli investimenti Industria/Transizione 4.0. Se ne analizza l’utilizzo da parte delle società di capitali, distinguendo tra maggiorazione dell’ammortamento e crediti d’imposta per evidenziarne le diverse caratteristiche e si presentano i risultati di un’analisi di tipo controfattuale per verificarne l’efficacia rispetto agli obiettivi perseguiti.
Gli incentivi fiscali hanno assorbito risorse pubbliche significative (circa 16 miliardi nel solo periodo 2017-2022) e hanno influenzato le decisioni di investimento delle imprese sia riducendo il costo del capitale, sia migliorando la loro capacità di autofinanziamento. L’analisi descrittiva mostra che nel triennio 2017-19, il 71 per cento delle società di capitali beneficiarie della maggiorazione è passato da un cash-flow negativo a uno positivo, contro il 41 per cento delle imprese non agevolate. Nel periodo 2020-22, lo stesso fenomeno si è verificato per il 73 per cento delle società beneficiarie del credito d’imposta, contro il 53 per cento delle non agevolate. Inoltre, l’analisi evidenzia che il passaggio dalle maggiorazioni degli ammortamenti ai crediti d’imposta ha determinato cambiamenti significativi nella composizione delle società beneficiarie. Mentre le maggiorazioni erano concentrate per circa l’80 per cento nel settore manifatturiero, i crediti d’imposta hanno mostrato una maggiore diffusione, con crescita significativa nel settore delle costruzioni (dal 5 per cento al 8-9) e nei servizi. Emerge inoltre un riequilibrio sia territoriale, con la quota di società beneficiarie nelle regioni del Sud che è cresciuta dal 15 al 25 per cento, riducendo la precedente concentrazione nelle regioni settentrionali, sia dimensionale, dato che i crediti d’imposta hanno favorito una maggiore partecipazione delle piccole imprese, pur mantenendo una concentrazione del beneficio sulle imprese medio-grandi. In ogni caso, entrambe le tipologie di incentivo hanno continuato a premiare prevalentemente società performanti, con indicatori di redditività e dinamicità degli investimenti superiori alla media già prima dell’accesso alle agevolazioni.
Una analisi basata sul confronto tra società con caratteristiche simili mostra che le società beneficiarie hanno registrato tassi di investimento superiori con un effetto più marcato per i crediti d’imposta rispetto alle maggiorazioni degli ammortamenti. Si osservano effetti significativi anche negli anni successivi al primo, non solo per il disegno stesso della misura (con il versamento di un acconto, l’agevolazione si estendeva a investimenti conclusi nell’anno successivo), ma anche per un possibile effetto moltiplicatore su altri investimenti non direttamente agevolati e per la maggiore capacità di autofinanziamento delle società in tutto il periodo in cui il beneficio fiscale, avendo natura pluriennale, si estende. Sono positivi anche gli effetti sull’occupazione, con incrementi del numero di dipendenti che si sono rafforzati negli anni successivi a quello del primo utilizzo dell’incentivo. Anche in questo caso l’effetto risulta più elevato per il credito d’imposta rispetto alla maggiorazione degli ammortamenti.
L’analisi evidenzia inoltre che l’efficacia degli incentivi è maggiore per le imprese di minore dimensione e per quelle registrate nel Mezzogiorno, in cui gli effetti sembrerebbero essere stati rafforzati dalla presenza di un credito d’imposta specifico aggiuntivo.