I voucher, cancellati dal decreto-legge del 17 marzo approvato ieri alla Camera senza modifiche, costituiscono una modalità di pagamento standardizzata per remunerare attività occasionali con trattamento tributario e contributivo agevolato. A tale strumento è dedicato questo Focus che ne analizza le dinamiche nel corso del tempo, la progressiva estensione del raggio d’azione, gli eventuali effetti di regolarizzazione di attività marginali o normalmente svolte con modalità informali. Il Focus esamina inoltre analoghe esperienze estere che potrebbero rappresentare un punto di riferimento per eventuali interventi futuri nel campo della regolazione del lavoro accessorio.
L’esperienza applicativa dei voucher – introdotti nell’ordinamento italiano nel 2003 – ha evidenziato alcuni profili di particolare rilievo.
Il primo è relativo alla crescita esponenziale dell’utilizzo di tale strumento negli anni più recenti.
Nel 2008 i voucher venduti erano circa 536 mila mentre nel 2016 avevano raggiunto quasi 134 milioni. Il tasso di crescita annuale si è attestato oltre il 50 per cento fino al 2015 per poi ridursi nel 2016 rimanendo tuttavia elevato e pari al 24 per cento circa. I percettori di voucher sono passati da poco meno di 25 mila nel 2008 a 1,38 milioni nel 2016, con la dinamica quasi egualmente suddivisa tra uomini e donne. Pur in presenza di una dinamica così marcata, i lavoratori pagati con voucher rappresentavano comunque alla fine del periodo osservato non oltre il 5,6 per cento del complesso dei lavoratori dipendenti e indipendenti e ovviamente per un numero di ore assai più limitato. Questi dati testimoniano dunque che la diffusione dei voucher, nonostante i forti tassi di crescita registrati dal 2008, resta comunque di dimensioni circoscritte quanto al suo peso relativo nel mercato del lavoro.
Il secondo elemento rilevante è il radicale cambiamento dell’utilizzo dei voucher rispetto alle finalità per cui erano stati introdotti (favorire la regolarizzazione di attività discontinue nell’ambito dell’economia informale, svolte prevalentemente da giovani, pensionati e soggetti con difficoltà occupazionali presso famiglie o associazioni del terzo settore). A seguito di numerosi interventi normativi susseguitisi già dal 2005, questo strumento è diventato utilizzabile senza limiti di settore, di caratteristiche della committenza e di tipologie dei prestatori di lavoro. Unici vincoli da ultimo rimasti quelli dei tetti sui compensi annuali da voucher percepiti dai lavoratori e pagati dai committenti, oltre ad alcune limitazioni in agricoltura e negli appalti di opere e servizi.
L’effetto di tale cambiamento si riflette sul mix delle attività in cui i voucher sono impiegati: l’agricoltura ha visto diminuire drasticamente la propria quota (dalla quasi totalità dei primi anni all’1,1 per cento del 2016) a vantaggio dei settori del turismo (14,9 per cento nel 2016), del commercio (14 per cento) e dei servizi (11,4 per cento). Una posizione marginale hanno finito per assumere proprio le attività, insieme all’agricoltura, per le quali i voucher erano stati originariamente pensati come i piccoli lavori domestici, le lezioni private di integrazione/sostegno, il giardinaggio e le piccole pulizie.
L’evoluzione normativa ha modificato anche le caratteristiche dei lavoratori percettori di voucher: tra il 2008 e il 2015 l’età media si è abbassata di circa 24 anni, con il crescente coinvolgimento delle fasce di età centrali corrispondenti alla fase adulta del percorso lavorativo.
In terzo luogo, per quanto riguarda gli effetti sul mercato del lavoro, a elementi positivi si sono affiancati elementi negativi, che hanno assunto un peso via via più marcato con la progressiva liberalizzazione del raggio di applicabilità dei voucher.
Tra i primi emergono il possibile reinserimento nel mercato del lavoro di soggetti effettivamente non più attivi e, in misura meno rilevante, la regolarizzazione integrale di occupazioni marginali totalmente sommerse (ad esempio, i piccoli lavori degli studenti e le attività stagionali e saltuarie svolte nel settore agricolo e nel turismo). Con riferimento al primo aspetto risulta che tra coloro che hanno riscosso almeno un voucher nel 2015 oltre il 45 per cento erano pensionati, silenti (coloro cioè che negli ultimi anni non hanno versato contributi né percepito indennità di disoccupazione o sostegno al reddito) e i “mai stati attivi”.
I principali elementi negativi riguardano: la possibilità che l’emersione sia solo parziale, rendendo impossibile l’accertamento successivo della componente rimasta non regolare; il rischio di precarizzazione dei giovani, che finiscono per essere impiegati con voucher anziché inquadrati con forme contrattuali più consone; la sostituzione di rapporti di lavoro pre-esistenti con remunerazioni mediante voucher (nel 2015 la quota di soggetti remunerati con voucher da un committente con il quale vi era un rapporto di lavoro dipendente o parasubordinato nei tre o nei sei mesi precedenti è stata pari rispettivamente al 7,9 e al 10 per cento, con una particolare concentrazione nel turismo, nel servizi e nel commercio). Infine, l’assenza di vincoli all’utilizzo dei voucher non ha impedito che una consistente quota di lavoratori permanga a lungo nell’universo dei voucher. Nel 2015 la quota dei percettori che avevano già ricevuto voucher nel proprio passato è stata pari a ben il 41 per cento, crescente in maniera significativa rispetto agli anni precedenti (30 per cento nel 2013, 34 per cento nel 2014). Di questi il 22 per cento si era avvalso dello strumento per la prima volta nell’anno immediatamente precedente e il 19 per cento in anni ancora precedenti, ed entrambe queste quote sono aumentate nel corso del recente passato.
Infine, il confronto del caso italiano con le esperienze di ricorso ai voucher negli altri paesi europei che li adottano (Austria, Belgio, Francia, Grecia, Lituania) e con i mini-job e i midi-job della Germania evidenzia alcune analogie e differenze rilevanti.
Se si osserva l’unica informazione disponibile per il confronto, ossia il numero di lavoratori remunerati con voucher o strumenti simili e il numero degli occupati (cioè non tenendo conto del differente numero di ore lavorate), la diffusione dei voucher in Italia appare sostanzialmente in linea o non troppo superiore con quanto registrato negli altri paesi con strumenti analoghi. Decisamente più elevata è invece l’incidenza dei mini-job e i midi-job in Germania (otre il 25 per cento del complesso dei lavoratori del settore privato nel 2016). Tuttavia, dal confronto internazionale emergono in modo chiaro alcune specificità del voucher italiano:
- le tipologie di committenti ammessi e di attività realizzabili sono molto ampie in Italia e fortemente limitate negli altri paesi, dove i voucher sono riservati ad attività a basso rischio che non necessitano di specifica preparazione professionale, commissionabili, salvo poche eccezioni, solo da famiglie o privati che non perseguono finalità imprenditoriali/commerciali;
- in Italia i vincoli riguardano i lavoratori (tetto ai compensi pagabili dal committente al singolo lavoratore e tetto ai compensi ricevibili dal lavoratore dal complesso dei committenti), mentre negli altri paesi i vincoli, sia di volume sia di controvalore, sono incentrati sul committente, per evitare un eccessivo ricorso ai voucher da parte dei datori di lavoro;
- le agevolazioni tributarie e contributive previste in Italia sui compensi da lavoro accessorio pagato con voucher sono relativamente più ampie di quelle riconosciute altrove e soprattutto meno selettive nei confronti dei destinatari.